A cosa serve una grande profondità di campo se non c’è un’adeguata profondità di sentimento ?

The Walk to Paradise Garden, 1946 Photograph by W. Eugene Smith

 A cosa serve una grande profondità di campo se non c’è un’adeguata profondità di sentimento ? 

Con questa frase si inaugura una rubrica destinata a farci “incontrare” i grandi autori della fotografia attraverso l’elaborazione di un percorso di lettura all’interno delle loro opere. 

Partiremo da alcuni grandi autori dell’immagine di reportage del novecento : 

  • William Eugene Smith / William Klein / James Nachtwey 

per poi occuparci dei grandi maestri d’illustrazione contemporanea: 

  • Andreas Gursky / Nan Goldin /  Martin Parr 

concludendo con tre grandi autori classici: 

  • William Henry Fox Talbot / Alfred Stieglitz / Ansel Adams


Ad dare inizio a questa serie di Letture fotografiche è questo breve testo che vuole presentarvi la vita e il lavoro di uno dei più grandi reporter americani: William Eugene Smith (1918–1978).

Pochissimi artisti possono vantarsi di essere testimoni di un era ed al comtempo maestri di uno stile oltre il tempo, oltre il gusto, oltre la storia. Se è vero, come dice Régis Debray, che “l’immagine non può essere innocente”, le immagini di W.E. Smith sono colpevoli di tutti i crimini loro ascrittibili, colpevoli di bellezza, di unicità, di essere schietti testimoni degli eventi, di essere esempio sommo di tutte quelle qualità umane che concorrono a fare dell’uomo Smith un grande maestro per tutti noi.

Egli fu, certamente, uno dei più grandi fotogiornalisti della storia, capace di rendere un genere così intimamente legato alla realtà del fatto narrato opera d’arte di per se stessa, avendo la possibilità di guardare e la capacità di vedere. Le sue immagini raccontano il secolo trascorso con un rigore, un senso di unicità e completezza senza pari in altri autori, dal reportage di guerra all’immagine sociale, sia come corrispondente della più prestigiosa testata giornalistica del suo tempo:  LIFE; sia come fotografo reietto in patria e osteggiato dai media americani, perché in odor di comunismo. 

Fu anche un fotografo estremamente raffinato nel lavoro in camera oscura, qualità che rendeva le sue stampe dei veri capolavori. 

Ma la più importante qualità di Smith, fu la passione con la quale consacrò la sua vita alla missione di essere fotografo. La sua passione e la sua assoluta integrità, la sua capacità di sacrificare tutto in nome della storia da raccontare, denaro, incolumità, vita… lo resero già in vita un artista universalmente ammirato. 

Così come la vità è fatta di incontri, anche la fotografia lo è. Il mio primo incontro con l’opera di Smith fu con una sua fotografia in particolare, questa :

Questa foto rappresentò per me per molti anni, ed ancora in parte lo rappresenta, il desiderio di fare “immagine”. All’ammirazione per questa fotografia debbo anche ascrivere un’altra grande passione che mi ha saputo dare momenti di felicità assoluta e di angoscia terribile: la passione per la camera oscura.

William Eugene Smith è nato a Wichita, Kansas nel 1918. Appena quattordicenne, spinto dalla mamma appassionata fotoamatrice, comincia a realizzare immagini. La fotografia diventa presto il suo principale interesse, e passa gli anni del liceo fotografando per il giornale cittadino. I soggetti di quegli anni saranno principalmente aeri, piccoli eventi locali, e qualche immagine sugli effetti della Grande Depressione.

Più tardi Smith deciderà di distruggere molti di questi lavori, considerandoli troppo scarsi per essere conservati, adducendo questa motivazione: “I had an intuitive sense of timing, an impossibly poor technique, and excitement to the fact of the event rather than of interpretive insight. Although I often was deeply moved, I did not have the power to communicate it.”

Smith era ancora poco più che adolescente quando suo padre si suicidò. I giornali distorsero i fatti facendo della verità un pamplet scandalistico, assai diverso rispetto all’accaduto, ma molto più succoso per il pubblico affamato di storie dure… Questo segnò profondamente l’animo di Smith, che con gli anni divenne una bandiera di quell’idea di assoluta integrità rispetto ai fatti che un giornalista deve saper tenere come testimone del presente.

Nel 1936, compiuti i diciotto anni, Smith viene ammesso a frequentare i corsi della Notre Dame University, dove le foto da lui realizzate riuscirono ad impressionare così tanto i docenti e l’amministrazione, che un corso speciale in fotografia venne creato appositamente per lui. Appena un anno dopo, Smith decide, però, di lasciare l’università per poi muoversi alla volta di New York: Giunto nella grande Mela viene chiamato a far parte dello staff di Newsweek, ma in capo a qualche tempo sarà licenziato per aver usato a “miniature cameras (2¼ X 2¼) “, ovvero una biottica, pur avendo ricevuto a proposito ordini espressamente contrari. Le ragioni di Smith circa la maggior “capacità di vedere” delle fotocamere più piccole purtroppo andavano contro il gusto fotografico corrente modellato sullo stile, per nulla meno moderno, delle macchine 4×5″ press, come le mitiche Graphic. Negli anni a venire Smith avrebbe lavorato con tanti tipi diversi di formati fotografici, ma la sua preferenza rimase sempre il formato 35mm. Sovente sono state fatte immagini che lo vedono al lavoro con quattro o cinque reflex appese al collo portate a spalla.

Dal 1938 al 1939 Smith lavorò come freelance per l’Agenzia Black Star; le sue immagini vennero pubblicate su Life, Collier’s, Harper’s Bazaar, e altri periodici, incluso anche il New York Times. Lavorò sopratutto con fotocamere biottiche 6×6 e un’illuminazione fatta di luce ambiente e molti flash, elaborando un suo stile davvero personale: “overconscious of technique and artificial light, mainly multiple flash.” così lo descrive pochi anni dopo.

L’anno successivo, il 1939, due cose importanti accadono nelle vita di Smith. La prima è l’incontro con la musica jazz, che segnerà profondamente il suo gusto espressivo; la seconda, firma un contratto di collaborazione con la rivista LIFE. Ma già nel 1941, dopo soli due anni, in contrasto con la linea editoriale della rivista, Smith deciderà di dimettersi da Life magazine per la vita più creativamente libera ma meno sicura economicamente del freelance.

“I…made brash, dashing interpretive photographs which were overly clever and with too much technique.., with great depth of field, very little depth of feeling, and with considerable ‘success.”

Gli anni ’40 furono all’insegna del mondo in guerra. Nel 1942 Gene Smith diviene corrispondente di guerra, prima per Ziff-Davis (Flying and Popular Photography) e più tardi per Life. Le immagini di Smith come fotografo di guerra, a parte una breve missione nell’Atlantico, furono realizzate soprattutto nel Pacifico in mano ai Giapponesi e riconquistato a forza di carne e sangue dall’esercito americano.

Durante questo periodo prese parte a 26 missioni di combattimento da portaerei ed a 13 invasioni terrestri. Attraverso un folle autostop militare a bordo di ogni mezzo possibile, aerei, navi o camion che fossero, faceva anche da fattorino espresso per i suoi rulli: il giorno del D-Day ad Okinawa e il giorno dopo, 200 miglia più lontano, a Guam per consegnare gli scatti a Life, per poi ritornare sull’isola nel pomeriggio, con l’aereoplano che portava i primi corrispondenti sul luogo dello sbarco.

Più tardi dirà, riferendosi al lavoro di quegli anni: “I would that my photographs might be, not the coverage of a news event, but an indictment of war-the brutal corrupting viciousness of its doing to the minds and bodies of men; and that my photographs might be a powerful emotional catalyst to the reasoning which would help this vile and criminal stupidity from beginning again.”

Nel 1944 dopo la conquista di Saipan, ultima delle innumerevoli battaglie di terra, attraverso le isole insaguinate del Pacifico meridionale, Smith fu assegnato di stanza sulla portaerei americana Bunker Hill, riuscendo così a fotografare i bombardamentei di Tokyo e alcune delle più disperate battaglie della guerra, come l’invasione di Iwo Jima e la battaglia di Okinawa. Alcune delle foto realizzate in questo drammatico scorcio di guerra sono nel tempo divenute icone dell’idea della guerra stessa e della sua capacità di far scomparire tutto ciò che ci rende degni di vivere su questo mondo. Dalla sinistra pace, dell’assolata fotografia, che ritrae due meccanici intenti a ricaricare le mitragliatrici di un aereo sulla portaerei dove Smith era di stanza, al soldato ferito, avvolto nelle bende nella cattedrale di Leyte trasformata in ospedale, alla bellissima immagine del recupero del bambino ferito nella cava di Saipan, fino alle immagini degli uomini ad Iwo Jima consumati dalla guerra.

Ma la fortuna stava per abbandonare Smith. Il 23 di maggio del 1945 mentre si trovava sulla costa est di Okinawa venne seriamente ferito da una scheggia di granata. Colpito alla mano sinistra, al collo e al volto, convalescente in ospedale Smith commenta così il suo ferimento : “I forgot to duck but I got a wonderful shot of those who did… my policy of standing up when the others are down finally caught up with me.”

Ernie Pyle, un altro grande corrispondente di guerra, che era con lui ad Okinawa e che non fu così fortunato come Smith, scrisse: “Gene Smith is an idealist, trying to do great good with his work but it will either break him or kill him.”

Le ferite riportate costarono a Smith due anni, dolorosi, fra operazioni, convalescenza e riabilitazione, vissuti nell’incerteza di non riuscire a fotografare di nuovo. Dopo due anni senza poter fare fotografie, la cosa era per lui fisicamente troppo dolorosa, durante una passeggiata in campagna insieme ai suoi due figli, Smith riprese in mano il suo apparecchio e come primo scatto dopo la lunga convalescenza realizzò “A Walk to Paradise Garden.” Questa immagine memorabile, che ho scelto come foto d’apertura per questo breve testo, servì come immagine conclusiva per la grande mostra voluta da Stieglitz “Family of Man” tenutasi al Museum of Modern Art di New York nel 1956.

Nel periodo che va dal 1947 al 1954, Smith realizza per LIFE alcuni reportage bellissimi, che lontano dalla “notizia” con la enne maiuscola ridefiniscono l’idea stessa di fotoreportage, e lo consacrano quale maestro indiscusso. Tra i tanti ne cito solo alcuni: “Trial by Jury” e “The Country Doctor” nel 1948; “Hard Times on Broadway” e “Nurse Midwife” nel 1951; “The Reign of Chemistry” e “Spanish Village” nel 1953; e in conclusione “Man of Mercy” nel 1954.

La moderna agiografia americana racconta Smith così: ” These features set a new standard for evocative picture stories. They showed essential human experiences such as compassion, pride, daily labor, birth, and death, with strength, clarity, and beauty. ”

Mai nessun testo dice della rabbia, dell’assenza di diritti civili, della povertà materiale e morale che Smith incontro peregrinando per l’America degli anni ’50, l’america del sogno americano, che era cosa solo per pochi bianchi e wasp. A distanza di oltre cinquanta anni da quelle denunce, il sogno è scomparso per lasciare posto alla realtà di una nazione che non ha saputo mai evolversi da quella condizione.

Di questi lavori due, in particolare, sono delle pietre miliari della storia della fotografia: “Spanish Village”, da cui la famosa foto della “Guardia Civil”, reportage di 1575 sulla cittadina di Deleitoso in Extrenadura pubblicato da Life come supplemento di 24 pagine vendette 22 milioni di copie; e il bellissimo “Country Doctor”, che racconta la vita e il lavoro del dottor Ernest Ceriani, un giovane medico generico, nella sperduta campagna americana, realizzando quello che a dire di molti (ed io concordo) è forse ancora oggi il più bel reportage della storia della fotografia.

Nel 1955, Smith, in ennesimo disaccordo con LIFE per l’utilizzo delle immagini sul Dr. Schweitzer che aveva realizzato in Africa , si licenzia dalla rivista. Rispetto a questa sua nuova separazione da LIFE dirà: “…Superficiality to me is untruth when it is of reportorial stature. It is a grievous dishonesty when it is the mark of any interpretive report which pretends concern with an important subject.”

Uscito da Life, entrò nell’agenzia MAGNUM appena fondata: se questa possiamo definirla una buona o una cattiva collaborazione per lui, è cosa difficile. Certo è che l’agenzia benificiò e beneficia tutt’ora del lavoro di Smith, come del resto lui ne saccheggiò a più riprese le casse. Questo fu un rapporto della durata di soli pochi anni. D’altro canto non era Smith un autore che poteva trovarsi bene accanto a personaggi come Cartier-Bresson, Haas o Frank, forse solo Capa poteva parlare, al tempo, il suo stesso linguaggio fotografico, ma una mina lo aveva già ucciso in Indocina nel 1954.

Smith scegliendo di difendere dalla “menzogna” il suo lavoro di reporter sociale segnò così il primo passo verso la definitiva rovina della sua carriera professionale, ma raggiunse quei risultati meravigliosi che tutti conosciamo, che nessun fotogiornalista mai prima aveva raggiunto e che troveranno, nel futuro, solo pochissimi emuli.

Nei due anni che seguirono Smith si buttò a capofitto nel monumentale reportage sulla città di Pittsburgh. Questo lavoro è molto probabilmente il più grande progetto fotografico che un singolo individuo ha concepito e sviluppato. Questo progetto in larga parte autofinanziato condusse Smith in uno stato di quasi bancarotta, malgrado l’aiuto che gli proveniva dall’attribuzione della Guggenheim Fellowship del 1956-1957. Problemi con i primi diritti, con gli editori per la pubblicazione insieme a certi lati del carattere di Smith, divenuti maniacali, resero impossbile la pubblicazione di questo lavoro. Pittsburgh, con oltre 11.000 negativi realizzati, attende da sempre risorse e passioni per venire alla luce.


In quel periodo Smith comiciò ad essere visto dagli editori come un autore troppo problematico. Considerava spesso il modo di trattare notizie e verità troppo semplicisticamente, o addirittura in modo mistificatorio, per lui inaccettabile. Nella media il giornalismo americano, di oggi come di ieri, non è mai riuscito ad emendarsi completamente dalla spazzatura scandalistica da cui è nato: diritti civili, maccartismo, Vietnam, Iraq, sono tutte grandi battaglie perse dalla stampa americana, la quale è stata o controllata in modo capillare da una censura assai sottile e pervasiva, oppure si è apertamente schierata con le destre fondamentaliste e reazionarie.

Nel 1958-1959 Smith riceve ancora un altro Guggenheim Fellowship cominciando un altro ambizioso progetto, quello di fotografare le città così come la vede senza interposizioni linguistiche “day and night and in all seasons of the year”, attraverso la finestra del suo loft newyorkese. Nello stesso anno alcune foto della serie Window… verranno pubblicate da Life con il tiolo “Drama Beneath a Window” e allo stesso tempo parte del progetto su Pittsburgh verrà pubblicato da Photography Annual; ma le malattie e una profonda crisi personale di Smith lasciano questi progetti sostanzialmente incompiuti.

Malgrado le molte difficoltà, proprio nel 1959 realizzerà ad Haiti un reportage sul locale manicomio, scattando immagini memorabili che divennero subito icone contemporanee.

Qui le biografie cominciano a differire… come avremo occasione di vedere anche con altri autori ed autrici entrati a far parte di diritto nella storia della fotografia, quando un artista decide di uscir fuori dalle regole dell’establishment americano, la prassi di “studiosi” e università americane invalsa è quello di censurarne gli aspetti biografici più eversivi; divergono a tal punto che rispetto alla sua morte alcuni diranno… “in seguito all’abuso di alcool e droga..”, lasciando intendere un overdose di qualcosa, altri appena più onesti ricorderanno che fu invece un comune ictus in un centro commerciale.

Lentamente Smith decide di allontanarsi da un sistema dell’informazione in cui fatica a riconoscersi. Gli anni ’60 saranno per Smith un decennio difficile anche sentimentalmente, ma malgrado le sempre maggiori difficoltà economiche riesce a partire per un ulteriore grande reportage: Minamata (1971) in cui fotograferà gli effetti dell’inquinamento delle acque da mercurio nell’omonima prefetture giapponese.


Tomoko Uemura in Her Bath (1971) by W. Eugene Smith.

Questo ultimo lavoro, di gusto e stile raffinatissimi, stampato da lui stesso divinamente, lascerà il segno nella storia della fotografia. Osteggiato dallo stesso governo locale, con alcune indimenticabili immagini racconterà gli effetti catastrofici di un decennio di inquinamento sulla popolazione civile e gli effetti sulle successive generazioni. Alcuni di questi immagini, malgrado l’indicibile crudeltà della storia narrata, sembrano essere toccate dalla “grazia”, un senso surreale di pace le pervade; esse sincreticamente parlano del Giappone attraverso il dolore e la malattia portata dagli usi dell’occidente lasciando un documento che trova paragoni solo nel lavoro sul “dolore” di un altro grande artista e reporter: James Nachtwey, l’unico fotografo degno di essere paragonato per intensità dello sguardo a Smith.

  • Estratto da Documenting Medicine : In January 1972, Smith was attacked by Chisso employees near Tokyo, in an attempt to stop him from further publicizing the Minamata disease to the world. Although Smith survived the attack, his sight in one eye deteriorated. Smith and his Japanese wife lived in the city of Minamata from 1971 to 1973 and took many photos as part of a photo essay detailing the effects of Minamata disease, which was caused by a Chisso factory discharging heavy metals into water sources around Minamata. One of his most famous works, Tomoko Uemura in Her Bath, taken in December 1971 and published a few months after the 1972 attack, drew worldwide attention to the effects of Minamata disease. In 1997 a French television production company contacted the Uemura family, asking permission to use Smith’s famous photograph in a documentary about the most important photographs of the 20th century, and to interview the family once again about Minamata disease and the photograph. However, by this stage, 20 years after his daughter’s death, Yoshio Uemura had changed his mind. He refused any interviews and disliked the idea of Tomoko’s image being further exploited: “I wanted Tomoko to be laid to rest and this feeling was growing steadily”, he said. After W. Eugene Smith’s death in 1978 the copyright of his Minamata photographs passed to his ex-wife Aileen Smith. Upon hearing the reaction of the Uemura family to the request of the TV company, she travelled to Minamata and met with them. She decided to grant the copyright of the photograph to the family, so that they might have the right of decision regarding its use. Aileen Smith said, “This photograph would mean nothing if it did not honor Tomoko. This photograph would be a profanity if it continued to be issued against the will of Tomoko and her family. Because this was a statement about Tomoko’s life, it must honor that life and by it her death.”

Di se stesso dirà: “I am an idealist. I often feel I would like to be an artist in an ivory tower. Yet it is imperative that I speak to people, so I must desert that ivory tower. To do this, I am a journalist — a photojournalist. But I am always torn between the attitude of the journalist, who is a recorder of facts, and the artist, who is often necessarily at odds with the facts. My principle concern is for honesty, above all honesty with myself…”

Nel 1976, grazie all’interessamento di Ansel Adams, suo amico e grande ammiratore, Smith ottiene un incarico come professore presso l’Università dell’Arizona. Ma appena giunto a Tucson gli verrà diagnosticata una grave forma di diabete, che da li a pochissimo lo porterà al coma. Dalla malattia non si riprenderà mai del tutto, riuscendo ad insegnare solo per un brevissimo periodo. Morirà nel 1978.

L’interessamento di pochi amici veri, insieme alla ricchezza insperata che in vita non ebbe mai, ottenuta dalla vendita delle sue molte stampe originali, oggi contribuiscono ad un fondo che premia ogni anno un progetto di fotoreportage. Questo premio, tra i più prestigiosi al mondo, ha visto negli anni come vincitori: Jane Evelyn Atwood (prima vincitrice), Eugene RichardsSebastião SalgadoGilles PeressDonna FerratoJames Nachtwey e Cristina Garcia Rodero.

Nel 1980, in occasione dei Rencontres che si svolgono ad Arles ogni anno, il mondo della fotografia, dell’arte e della cultura ha tributato a Smith il dovuto omaggio.

Concludo con queste bellissime parole, sue di Gene, come usavano chiamarlo gli amici, che spero possiate apprezzare nella loro semplicità e purezza: “Photography is a small voice, at best, but sometimes – just sometimes – one photograph or group of them can lure our senses into awareness … Someone – or perhaps many – among us may be influenced to heed reason, to find a way to right that which is wrong … The rest of us may perhaps feel a greater sense of understanding and compassion for those whose lives are alien to our own … Photography is a small voice … It is an important voice in my life, but not the only one. I believe in it.”

Alcune tra le mostre più recenti (fonte magnum)

  • 2001/02 Dream Street – W. Eugene Smith’s Pittsburgh Photographs – Carnegie Museum of Art Pittsburgh, USA; ICP, New York, USA; Center for Creative Photography, Tucson, USA
  • 1998/99 W. Eugene Smith – Hôtel de Sully, Paris, France; Fotomuseum Winterthur, Switzerland; Museu Nacional d’Art de Catalunya, Barcelona, Spain; Dundee Contemporary Arts, Dundee, UK; Pallazzo Magnani, Reggio Emilia, Italy
  • 1991 W. Eugene Smith – Centre Georges-Pompidou, Paris, France
  • 1974 Let Truth Be the Prejudice – Jewish Museum, New York, USA; American Institute of Architects Centennial Exhibition, National Gallery of Art, Washington, D.C.

Libri (fonte magnum)

  • 2001 W. Eugene Smith, Dream Street, Smith’s Pittsburgh Photographs, Norton & Co, USA
  • 1999 W. Eugene Smith, Aperture Masters of Photography, Aperture, USA
  • 1999 W. Eugene Smith, Il senso dell’ombra, Federico Motta, Italy
  • 1998 W. Eugene Smith, Du côté de l’ombre, Le Seuil, France
  • 1998 W. Eugene Smith, Photographs 1934-1975, Harry N. Abrams, USA
  • 1990 W. Eugene Smith, Thames & Hudson, UK
  • 1989 W. Eugene Smith, Shadow & Substance, McGraw-Hill, USA
  • 1986 W. Eugene Smith, Pantheon Books, USA
  • 1985 Let Truth Be the Prejudice, Aperture, USA
  • 1983 I Grandi Fotografi: W. Eugene Smith, Gruppo Editoriale Fabbri, Italy
  • 1983 Photo Poche, Centre National de la Photographie, France
  • 1981 Master of the Photographic Essay: W. Eugene Smith, Aperture, USA
  • 1978 Passenger Ships of the World Past and Present , George H. Dean, USA
  • 1975 Minamata, Alskog/ Holt Rinehart & Winston, USA
  • 1969 W. Eugene Smith, His photographs and notes, Aperture Monograph, USA
  • 1963 Japan A Chapter of Image, Hitachi, Japan

Per le immagini si ringrazia la fondazione Smith e l’agenzia Magnum, titolari dei rispettivi diritti.

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