Chiare metafore visive

Il primo pensiero che viene in mente, guardando le inquietanti immagini di Luca Monti è una domanda: perché, invece di fotografare "faticosamente" i suoi soggetti non li disegna a mano? Ma è una domanda ingenua, in quanto la scelta di esprimersi per mezzo delle immagini ottiche piuttosto che con quelle manuali non è tanto dovuta a motivi tecnici quanto, e soprattutto, morali.
Chi sceglie, consapevole dello strumento di cui si serve, di comunicare con la fotografia ha scelto, prima di prelevare l'immagine, di fare i conti con la realtà che si trova davanti all'obiettivo del proprio apparecchio fotografico: anche con quella realtà che è stata, prima del prelievo fotografico, manipolata "in preproduzione", affinché il riflesso della luce corrispondesse più chiaramente al progetto del fotografo.
E il progetto di Luca Monti emerge con inquietante evidenza dalle sue immagini di corpi soffocati dal cellophane, corpi avulsi dalla realtà da un diaframma artificiale, chiare metafore visive della perdita di contatto con la natura, inequivocabili denunce ottiche della mancanza di rispetto dell'uomo nei confronti del pianeta che l'ospita, quel pianeta che ingenue religioni gli avevano fatto credere che fosse suo e che potesse disporne, insieme a tutte le altre forme di vita, a suo piacimento: una credenza che, come conferma questa mostra, cui Luca Monti ha dato il suo prezioso contributo iconico, è ancora dura a morire.
È questa - anche se la maggior parte di quanti oggi prelevano fotografie ne sono inconsapevoli - la scelta morale di chi fotografa sapendo cosa significa fotografare, di chi è ben consapevole della rivoluzionaria eziologia dell'immagine ottica, della prima immagine che, nella storia delle immagini vecchia di quarantamila anni, non è prodotta dalla mano dell'uomo ma dal riflesso della realtà.

Nello Rossi

Milano, 22 giugno 2018


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