Fotografia della settimana:Funeral train

Ancora una storia singolare per la foto della settimana. Debbo dire che dall’idea iniziale che avevo per questa piccola rubrica mi sono spinto su un binario diametralmente opposto, e la foto della settimana è divenuta occasione per parlare di molto più che di una immagine…

Era il cinque giugno del 1968 quando un oscuro signore, tale Sirhan B. Sirhan, un giordano di origine palestinese decise che nulla di meglio aveva da fare che sparare a neo vincitore delle primarie Bob Kennedy, nella cucina dell’Ambassador Hotel a Los Angeles. Se questa sia la vera lettura della storia, o se dietro ci siano mille complotti segreti, francamente a me la cosa non interessa, la fotografia non serve a fare supposizioni complottiste, ho un documento della realtà, è un documento dell’immaginazione, essa non suppone si limita ad essere. Il funerale si tenne a Manhattan, nella cattedrale di St. Patrick, poi la bara venne caricata su un treno di dieci vagoni che la portò alla destinazione finale: il cimitero di Arlington, dove Bob Kennedy venne sepolto poco lontano dal fratello John. 

Paul Fusco, fotografo di Look Magazine, rivista bisettimanale con una storia illustre, era sul quel treno con tre macchine fotografiche e una buona scorta di pellicole a colori.

 “Nell’ultimo vagone i servizi segreti decisero di mettere la bara di Bobby, la appoggiarono per terra, poi dissero ai familiari e agli amici di prendere posto nella penultima carrozza. Erano loro ad aver preso il comando del treno e non volevano discussioni. Ma i ferrovieri pensarono che sarebbe stata un offesa alla folla che attendeva e appena il convoglio cominciò a muoversi la sollevarono e la appoggiarono sugli schienali dei sedili. Era una sistemazione instabile e precaria, ma così il feretro si poteva vedere attraverso i finestrini”. 

Fusco lentamente prosegue il racconto di quello strano viaggio :  “Era l’8 giugno, un giorno caldissimo, un anticipo d’estate. Il viaggio durò più di otto ore attraverso cinque Stati: New York, New Jersey, Pennsylvania, Delaware e Maryland. Un milione di persone aspettavano lungo i binari. Il treno si muoveva lentissimo, si fermava spesso per dare la precedenza agli altri convogli, impiegammo quasi il triplo del tempo che si impiega normalmente. Ma era la velocità giusta per un funerale. Quel treno è stato il vero funerale, quello dell’America, è durato un’intera giornata, era fatto per il popolo. Era il funeral train”. 

Molte parole banali sono state scritte da autorevoli giornalisti su queste immagini… indignazione, stupore, dolore, tutti nobili valori di cui però in queste foto non c’è nessuna traccia… Queste foto raccontano della stupidità di un popolo, della sua incapacità di guardarsi allo specchio, della sua credulità ad una politica truffaldina che non nutriva alcun interesse verso quelle faccie, verso le loro lacrime, o verso quei saluti militari troppo esibiti. Queste foto parlano di una nazione in guerra civile permanente, dove sono solo dei feticci a riempire i vuoti, le mancanze di una umanità-pecora condotta per il naso a piangere l’ultimo eroe morto di una guerra non dichiarata, il cui primo obiettivo era lo stesso popolo.

“Quel giorno non dovevo lavorare, ma vivevo a Manhattan e decisi di passare in redazione. Gli uffici di Look erano su Madison Avenue, proprio alle spalle di St. Patrick, i colleghi erano tutti in silenzio, si respirava un’angoscia fortissima. Mi siedo. Bill Arthur, il direttore, mi vede e mi chiama nella sua stanza: “Paul vai a Penn Station, porteranno la bara di Kennedy a Washington. Sali su quel treno”. Non aggiunse una parola, non disse cosa voleva, che tipo di foto, se aveva delle idee, nulla. Io non chiesi nulla, allora funzionava così, presi le pellicole, attraversai la strada e mi fermai per mezz’ora fuori dalla cattedrale. Poi camminai veloce fino alla stazione. Trovai subito il treno, era circondato dagli uomini del secret service. Era un convoglio speciale: non ho mai capito se fosse stato organizzato dal governo o dalla famiglia. Mostro il tesserino e salgo, un agente mi mostra un sedile dell’ottavo vagone e mi dice: “Siediti qui e non ti muovere.

La storia americana contemporanea è intrisa di menzogne… i Kennedy ne sono solo la stella più lucente, quell’oro oscuro, nero addirittura, che riluce nella penombra di un coacervo di potere che parte dalla Corea, passa per Cuba e Dallas, si ferma a Los Angeles, raggiunge il Libano, Israele, l’Iran e l’Iraq di ieri, passa attraverso i piccoli scandali di provincia di un presidente chewing-gum come Regan, il centro america, il supporto alle dittature militari di mezzo mondo, salvo poi supportarne la loro caduta a favore di altre dittature… passa per nuove guerre, falsi presidenti come i Bush, ragazzini vogliosi di marmallate come Clinton, passa per degli attentati che sollevano più dubbi che Socrate, che del dubbio era diciamo prossimo… per finire in mille piccole menzogne che ogni giorno crollano e ci mostrano una nazione fondata su di esse. 

Non sapevo cosa fare, pensavo che a Washington e poi al cimitero di Arlington avremmo trovato decine di colleghi e di telecamere ad aspettarci, avevo bisogno di un’idea subito. Ero pieno d’ansia ma mi bastò guardare fuori dal finestrino per capire: vidi la folla e tutto fu chiaro. Abbassai il finestrino, allora si poteva fare, e cominciai a scattare. Rimasi nella stessa posizione per otto ore a fotografare la gente accanto ai binari. Quella era la storia”. 

Quella non era la storia, come ritiene il nostro fotografo, erano le vittime della storia, la vittima non era l’ultimo dei Kennedy morto che giaceva nel feretro posto nel decimo vagone… ma tutte quelle persone che mano alla testa o con i lacrimoni negli occhi, venivano spontaneamente all’ultimo spettacolo in ordine di tempo del circo della storia.

“Venni investito da un’onda emotiva immensa, c’era tutta l’America che era venuta a piangere Bobby, a rendergli omaggio. Vedevo mille inquadrature possibili, non avevo tempo per pensare, per aspettare, dovevo reagire al volo. Le mie macchine non avevano il motore e io mi ripetevo soltanto: “Dai, scatta, scatta, scatta””. 

 La luce cala, le fotografie cominciano ad essere mosse, sgranate. “Avevo una pellicola Kodachrome, quella che amavo di più, ma era lenta e cominciai a preoccuparmi mentre vedevo il sole scendere”. I volti si fanno sempre meno riconoscibili, le immagini sempre più mosse, come in una lunga dissolvenza sul sogno americano, su un popolo pronto a credere a tutto pur di illudersi di essere popolo, nazione, qualcosa… e non una accozzaglia di reietti, profughi, disperati venuti da ogni dove per sfruttare una terra che in fondo sanno di non meritare. Questa origine oscura, madre del mito della frontiera, renderà la nazione americana la più grande macchina di morte del secondo dopoguerra, e l’unica nazione che nel XX secolo ricorrerà all’omicidio politico sistematico per il controllo della sua leadership.

“La mia immagine preferita è quella in cui si vedono un padre e un figlio su un ponticello di legno che salutano portandosi la mano alla fronte, dietro di loro la madre ha la mano al petto. Il giovane è a torso nudo, hanno i capelli arruffati. Quella è la foto simbolo dell’America dopo l’omicidio di Bobby: quella famiglia era povera, combatteva per sopravvivere e vedeva passare via la possibilità di una vita diversa. I Kennedy avevano dato speranza alla gente e ora quella gente vedeva tramontare il sogno. Se ne andava con quel treno, era chiuso in quella bara”. 

Il direttore di Look magazine decise di non pubblicare nessuna di quelle foto, erano belle ma la rivista concorrente Life uscì prima con le foto della morte e dei funerali; allora a Look decisero di fare uno speciale sulla vita di Bob Kennedy e il reportage di Fusco finì in archivio. Quel servizio, nato per caso e contrario a tutte le ‘leggi’ non scritte del giornalismo all’americana, dall’archivio della rivista fini per non uscire mai più, Look Magazine travolta dai debiti falli solo tre anni dopo ed in cambio di un forte sconto sulle tasse da pagare l’editore si accordò con la Libreria del Congresso: cinque milioni di foto presero la via di Washington. “Anche i miei scatti finirono là. Io mi portai a casa un centinaio di stampe e non mi sono mai dato pace che non fossero state pubblicate.”

Quelle foto evidentemente non piacevano, parlavano di uno spaccato dell’America, che l’America stessa voleva dimenticare. Una nazione fiera della sua arroganza militare, incapace di vedersi allo specchio in nessuno dei suoi giorni più tragici, cercava nel continuo oblio del fatto nuovo, dell’ultima notizia l’ultima difesa dal proprio ineluttabile destino di burattino, di fiera ammaestrata di circo, diretta da mani e da fruste destinate a rimanergli sconosciute.

Ho dovuto aspettare trent’anni per vederle stampate. Le proposi al primo anniversario, al secondo, poi dopo dieci anni, venti, venticinque. Nel frattempo ero diventato uno dei fotografi di Magnum ma ogni volta che c’era un anniversario tondo cominciavo il mio giro di art director, quotidiani, riviste. Nessuno le voleva, tutti mi dicevano di no. Nel trentesimo anniversario, era ormai il 1998, provo a chiamare Life, che era diventato un mensile, ma rispondono che non interessava. Torno sconsolato qui nella sede di Magnum e mi fermo a parlare con una giovane ragazza che era appena stata presa come photo editor, Natasha Lunn. Le dico sconsolato: “Sono trent’anni che vado in giro con questo lavoro, ma cosa devo fare per vederlo pubblicato?”. Mentre lo sto per rimettere via lei mi stupisce: “Io lo so, fammi provare” e telefona a George Magazine, il mensile del giovane John John Kennedy, il nipote di Bobby. Impiegò solo due minuti a convincerli e finalmente io vidi le mie foto pubblicate”. 

Buone vacanze.————-Tutti i diritti riservati – Paul Fusco/Magnun Photos

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