Elementi per una sociologia dell’immagine sintetica
January 10, 2009Genesi (1,26) E Dio disse: “Facciamo l`uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”.
Genesi (1,27) Dio creò l`uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò.
E fu così la prima fotografia della storia, una copia somigliante, davvero somigliante, ma ahime senza la caratteristica principe dell’originale: la perfezione.
Per quanto mi addentri nel pensiero di coloro che parlano di fotografia, invariabilmente, talentuose o mediocri menti che siano, prima o poi finiscono per abbarbicarsi a qualche riferimento deterministico di natura tecnologica.
Ora se parlassero di scienza astratta e della sua implementazione in una qualche idea di tecnologia, riuscirei loro anche a perdonare questa ingenuità, ma poiché tutti rimangono inevitabilmente sedotti dalla fascinazione del particolare concreto, finiscono sempre con il ritrovarsi nel vicolo cieco di una qualche tecnica stretta, che l’imperizia nella materia finisce per farle da loro attribuire qualità sempiterne o ontologiche, come se l’idea della fotografia intesa come fatto artistico fosse perennemente ed indissolubilmente legata al suo riferimento tecnico presente ancor prima che scientifico.
Inevitabilmente la tecnologia di cui è inutile dare storia, ne basta la cronaca…. si sorpassa da sola, spinta da considerazioni di natura pratica e concreta, finendo per svilire anche le parole gentili delle menti più fini, che abituate ad essere soggiogate solo a se stesse si ritrovano perse in un mondo inevitabilmente sociale come quello della tecnica.
Ecco perché quando tutti i teoremi proposti sulla fotografia, vengono a cadere in virtù di una sola nuova tecnica, mi sento di dover prendere congedo da questa parola amata troppo ed abusata ancor di più, sventrata e violentata da troppi amanti di parole fine a se stesse; lei che un fine ben preciso l’aveva dal giorno assolato della sua nascita. Prendo congedo dalla parola fotografia che d’ora in poi, per me, sarà sostituita da tre termini similari eppure ben distinti, immagine digitale per intendere l’immagine nell’atto artificiale della sua codificazione numerica, l’immagine fotografica, con riferimento alla natura unica ed incontaminata del suo nesso macchinico con il reale: parole entrambe in distinzione e correlazione netta con la parola immagine di sintesi o per comodità IMMAGINE, o ancora immagine sintetica che invece racchiude quell’idea più complessa del fare immagine, oltre le tecniche del suo farsi.
Trovato un chiarimento lessicale, mi sembra necessario evidenziare alcuni strumenti necessari a traghettarci dal dominio dell’immagine analogica, fissa od in movimento (cinema - fotografia) al mondo dell’immagine sintetica, passando di necessità, attraverso l’immagine digitale. Il primo concetto che mi pare necessario decostruire per procedere in un’opera di chiarificazione lo troviamo ben esposto in queste righe di Burgin del 1996: “Il sistema della fotografia si è sviluppato sulla base della prossimità o distanza rispetto ai poli dell’oggettività e della soggettività, in un continuum che va dalla fotografia scientifica e giudiziaria, attraverso la fotografia documentaria e il fotogiornalismo, fino alla fotografia pubblicitaria e artistica. Questo continuum a sua volta si è formato in implicito riferimento ad un altro, che si stende fra l’operazione automatica e oggettiva della fotocamera, “pura tecnologia”, e il gesto umano e soggettivo della pittura, “pura personalità”. Un effetto dell’avvento della fotografia digitale è stato il venir meno di questo continuum, unendo le sue estremità un tempo antipodiche.”
Questo è il tipico esempio di mistificazione del processo macchinico della fotografia, come struttura di senso incapace di alterare la realtà, o capace di una assoluta oggettività. L’ esistenza di una fotografia capace di essere oltre lo sguardo, di essere oltre l’atto della visione, una sorte di testimonianza oggettiva senza testimone. Quando, recentemente a Parigi sono state esposte le fotografie di Andre Zucca, che riprendevano Parigi al tempo dell’occupazione nazista come una città nel complesso capaci di guardare avanti e non stremata o turbata oltre ogni limite dalla presenza dell’occupante, in coro la popolazione di Parigi ha gridato alla menzogna.
I parigini, come i francesi, sono cresciuti nel mito di una Francia tutta resistente, mito creato del genio politi di De Gaulle, ma assolutamente falso… la società civile infatti appoggio in pieno la repubblica di Petain, che con i nazisti collaborò in pieno dalla prima ora, e così la gran parte della popolazione. Insomma, quando bisogna credere in una fotografia incapace di mentire, subito tutti a schierarsi dietro a questa bandiera, ma disponibili a rimanerci fino a quando la fotografia ci dice quello che vogliamo sentirci dire…. altrimenti tutti pronti ad affermare che cessa di essere testimonianza oggettiva in virtù dell’impossibilità dell’oggettività da parte del testimone, ovvero il fotografo.
In questo senso mi pare un clamoroso esempio di mistificazione a tutto campo, ovvero di somma di mistificazioni progressive, “L’immagine infedele”, di Claudio Marra, che in un solo testo riunisce tutti i preconcetti ignoranti sulla fotografia analogica quanto digitale; insomma una vertigine dell’ovvio, del trito e del banale sulla fotografia. In tal senso mi pare interessante citarlo: “la fotografia continua a svolgere le funzioni che ha sempre svolto in passato, tra le quali quella di “esercizio della memoria”. Ma è la cosiddetta “questione del referente”, in fondo, uno dei nodi problematici ove si intrecciano, in modo complesso e delicato etica, estetica e, tra queste, la figura dell’autore. Quest’ultimo, costretto a interagire con un sistema tecnico che, essendo apparentemente fondato esclusivamente sull’automatismo e sull’oppressione dell’indicalità, parrebbe escluderne qualsiasi altra possibilità espressiva.
Ne consegue l’idea - temibile - che la fotografia non possa mentire, come potrebbe fare invece il linguaggio; o, per lo meno, che il mezzo non sia in grado di farlo con la stessa semplicità che connota altri ambiti culturali. Ove c’è segno, secondo la prospettiva linguistico-semiotica, emergerebbe infatti la possibilità di un’eventuale manipolazione del senso a questo connesso. Si delineerebbe, conseguentemente, uno scenario contraddittorio, per cui la fotografia non può mentire, quindi non è un segno, ma se non è tale non è neanche lingua e, cioè, non è un “atto culturale”. Poche righe capaci di mostrarci che quando si parla di fotografia, ricordo è un testo pubblicato da Mondadori, si accetta qualsiasi grado di ignoranza nell’interlocutore, che ci ricordano come per alcune menti, in precisi contesti culturali, Marra insegna al Dams di Bologna, in sessanta anni di dibattito sul tema non si sia fatto un passo in avanti. Per fortuna la realtà ci sovviene con uno stato del pensiero assai diverso. Che l’immagine analogica presenti difficoltà maggiori di manipolazione rispetto a quella digitale è tanto vero quanto falso, ma mi riservo di tornare sull’argomento con un testo apposito. Nel frattempo mi sembra assai esplicativo questo frammento di testo di J.C. Lemagny : «Nell’epoca delle immagini digitali, i fotografi creativi s’interessano sempre più agli antichi procedimenti. Stanno forse per nascere nuove arti, ma la fotografia non ne è minacciata più di quanto non lo fosse nel 1839 la pittura dall’invenzione di Daguerre. Per le possibilità di continue modificazioni che offre, l’immagine digitale è un ritorno al disegno. Come sempre, si trasformerà in arte quando in essa la facilità di un procedimento si trasformerà nella resistenza di una materia. E il suo ruolo, nell’ambito dei media, di schermo interposto fra la realtà e noi, verrà a coincidere con quello che ha già la fotografia come veicolo di significati illusori; si confonderà con esso, eliminando finalmente le ambiguità che ancora pesano sugli impieghi della fotografia quando questa non ha intenti artistici. »
Con la fotografia analogica/digitale/sintetica è successo sostanzialmente lo stesso: il mezzo scambiato per il contenuto. Il medium è percepito come il messaggio, come se il medium non comunicasse altro che sé stesso. Questa tendenza a considerare importante il mezzo più del suo contenuto vi è stata, almeno nella fase iniziale della loro utilizzazione, per tutti i media del XX secolo. La fotografia ad esempio è “morta” senza riuscire mai a liberarsi di questo preconcetto, veramente. Ora se possiamo metter da parte una volte per tutte la questione del referente e accettare che la fotografia è un linguaggio dell’arte punto e basta - e che il fotogiornalismo è un momento epifenomenico della fotografia, se pur importantissimo ontologicamente non diverso da come potrebbe esserlo per la pittura l’abitudine in voga nei tribunali americani di non ammettere i fotografi ma solo dei ritrattisti, i quali riprendono la scena attraverso l’uso del disegno - possiamo finalmente concentrarci sulla fotografia come opera d’arte.
«L’artista è l’origine dell’opera. L’opera è I’origine dell’artista. Nessuno dei due è senza l’altro. Eppure, nessuno dei due, da solo, regge l’altro. Artista e opera ogni volta sono, in se stessi e nel loro reciproco rapporto, in virtù di un terzo elemento, che è, invero, il primo, vale a dire ciò da cui sia l’artista sia l’opera d’arte traggono il loro nome: l’arte.Tanto necessariamente l’artista è l’origine deIl’ opera in un modo diverso da come l’opera è l’origine del’artista, quanto certamente l’arte resta, in una modalità ancora diversa, l’origine, al tempo stesso, dell’artista e dell’opera. Ma l’arte può mai essere qualcosa come un’origine ? Dove e in che modo si da arte ?»
Martin Heiddegger
All’immagine sintetica oggi concorrono diversi lessici del mondo dell’immagine, che trovata una loro facilità d’esploitazione maggiore, che si configura in una possibilità di un uso più generalista, rendono il dominio di questo nuovo linguaggio, non lessico, assai esteso e mutevole e al contempo molto difficile da tradurre in un equivalente univoco atto della visione. L’immagine sintetica, infatti, inferisce il suo dominio linguistico su molti campi espressivi: arti figurative, arti plastiche, video, cinema, fotografia e grafica nella sua accezione più ampia. Questo è l’effetto principe dell’apparizione del trattamento digitale dell’immagine, la cui parola chiave è linguaggio. L’immagine ormai può essere generata per mezzo di operazioni linguistiche astratte. Con il digitale ormai l’immagine è diventata un linguaggio non in senso metaforico, ma nel senso stretto della parola. E’ questa l’unica rottura fondamentale in rapporto con le tecniche del passato.
L’immagine digitale è innanzi tutto una scrittura: si scrivono delle immagini battendo su una tastiera. Non è una metafora. Non è tanto la metafora dell’immagine come scrittura nel senso vago dell’espressione, è veramente la possibilità giocare con le immagini come si gioca con gli aggettivi, con i verbi, con le parole. Finora le immagini, l’immagine del pittore, l’immagine del cineasta, l’immagine del fotografo, l’immagine del “videasta” o, se si preferisce, della televisione, partecipavano della materialità del mondo. Il pittore manipola dei pigmenti. Si stabilisce dunque un contatto tra la volontà del pittore e una materialità che gli oppone resistenza. Il fotografo, come il cineasta o il “videasta” gioca con dei fotoni.
Ci sono dei fotoni che vengono a imprimersi su una superficie fotosensibile, che si tratti della gelatina fotochimica, del tubo elettronico della videocamera o della pellicola cinematografica. In tutti i casi l’immagine un tempo era legata alla materialità, alla concretezza del mondo reale.
Con l’immagine digitale, non sono più dei fotoni o dei pigmenti che creano l’immagine, ma delle pure operazioni linguistiche.
E in questo modo l’immagine appartiene interamente al regno del linguaggio. Questo è assolutamente fondamentale, in senso buono e in senso cattivo. In senso buono ci offre la libertà del linguaggio, la sovrana libertà dell’espressione, separata da ogni rapporto con il reale; in senso cattivo l’inconveniente è che proprio perché è privata di ogni relazione con il reale ne perde il sostanzioso midollo. Quindi il dibattito che si potrebbe sviluppare eventualmente stasera è: che cosa si guadagna, che cosa si perde a rifugiarsi così nel regno dei linguaggi simbolici astratti, quando si vogliono fare delle immagini.
Ma questa condizione è data solo nel mondo virtuoso dell’immagine digitale come idea, anzi come idea positiva, quindi con un telos chiaro a priori prima di condurre l’analisi. Ora io dico che l’immagine digitale non rappresenta un passo in avanti nel linguaggio dell’immagine ne più ne meno di quanto non rappresenti un passo indietro, ma solo una redistribuzione degli spazi di intervento e delle competenze. Se per quello che riguarda l’immagine analogica l’operatore poteva manipolare tutto lo spazio delle competenze del suo mezzo, configurando tale mezzo di espressione come un vero linguaggio proprio, per ciò che riguarda l’immagine digitale l’operatività è nella sostanza molto ridotta, ridotta ai termini linguistici ai quali una tecnica sulla quale l’operatore non può operare, ma che è al contempo la tecnica stessa fondante il suo sistema di espressione, ne consente l’accesso.
Paul Virilio - in accordo sostanziale con altri pensatori francesi, quali Jean Baudrillard e Marc Augé - va oltre nella sua critica della tecnologia contemporanea. A parere di Virilio, già l’origine militare di Internet (che era, agli inizi, la rete di collegamento tra i computer dell’esercito americano)come di altri modelli di consumo tecnologici denuncia la sua funzione di dominio. Il dominio dell’America e del suo stile di vita passerebbero tramite Internet, come tramite i telefoni cellulari, le clonazioni, la biogenetica in genere e via dicendo. Questa posizione di Virilio è stata influenzata certamente da Dick, almeno quanto quella di Baudrillard da Ballard. La nostalgia dei “vecchi” media è notoriamente presente in molti romanzi di Dick e, al giorno d’oggi, in una interessantissima iniziativa di Sterling: il museo virtuale dei vecchi media.
Questi autori, per quanto apprezzabili, rappresentano una forma di pensiero “vecchio”, nel senso di pensiero incapace di metter in crisi il proprio modello di socialità. Il risultato è percepibile direttamente nei tono cupi o apertamente apocalittici di “Do androids dream electric sheeps” di Dick o di tutti i romanzi di Sterling. Lontani, lontanissimi dalle visioni meno ideologiche e più coerenti come ad esempio nel primo lavoro di successo di Neal Sthepenson “Snow Crash”, dove partendo proprio dall’esperienza delle comunità virtuali, l’autore ipotizza un loro trasferirsi dal mondo digitale, caratterizzato per il suo essere trans-materiale al mondo fisico classico. Eppure l’inserimento di un modello culturale dominante nell’atto della visone, fino ad oggi sostanzialmente libero dal punto di vista linguistico è un fenomeno di totalitarismo culturale da non sottovalutare. Ecco perché parlare dunque di rivoluzione, senza tener conto dell’implicita regressione per riduzione di competenza mi sembra al momento fuorviante. Accertato che non siamo di fronte a nessuna rivoluzione epocale, nè a fenomemi che non fossero già visti, non dobbiamo negare però la grande autonomia linguistica dell’immagine sintetica rispetto ai fenomeni artistici e culturali che hanno composto a determinarla…..
La genesi dell’immagine sintetica come linguaggio è ascrivibile alla nascita della video-arte. La video-arte nacque negli anni ‘60 grazie alle sperimentazioni sull’immagine elettronica di Nam June Paik, come sempre nel tentativo di etichettarla si è finito per proporla come un nuovo linguaggio a se stante. Essa tuttavia non è mai stata un’arte autonoma, ma piusttosto lo sfrutamento delle possibilità offerta dalla tecnologia video a forme estetiche già esistenti, quali la scultura (videoscultura), l’installazione (videoinstallazione), la performance (videoperformance), e il cinema. Quest’ultima forma è quella su cui vorrei qui soffermare l’attenzione perché di piú stretta pertinenza al nostro discorso.
Mentre la tecnologia di base della produzione d’immagini su pellicola sta per scomparire, sostituita dalle nuove tecnologie digitali, i codici cinematografici trovano un nuovo ruolo nella cultura visiva digitale. Nuove forme di intrattenimento basate su media digitali e persino l’interfaccia di base tra uomo e computer si modellano sempre più sulle metafore del fare e del vedere un film.
Così, il film (= pellicola) potrà in breve tempo scomparire, ma non il cinema. Al contrario, con la scomparsa del film dovuta alla tecnologia digitale, il cinema acquisisce lo status di un vero e proprio feticcio. Ancora più feticizzato è lo stesso “look” del film - l’aspetto morbido, granuloso e un po’ confuso di un’immagine fotografica tanto diversa dall’immagine dura e piatta di una videocamera o dall’immagine troppo pulita, troppo perfetta, della computergrafica.
L’immagine fotografica tradizionale un tempo rappresentava l’inumana, diabolica oggettività della visione tecnologica. Oggi, invece, essa appare così umana, così familiare, così domestica, in contrasto con l’aspetto alienante, ancora non familiare, di un monitor di computer. Indipendentemente da ciò che rappresenta, qualsiasi immagine fotografica oggi anzitutto rappresenta la fotografia. Così il digital imaging, mentre promette di sostituire completamente le tecniche di produzione dell’immagine su pellicola, nello stesso tempo trova nuovi ruoli e attribuisce nuovo valore al dispositivo cinematografico, ai film classici e al look fotografico. Certo, però, ciò che il digital imaging preserva e diffonde sono solo i codici culturali del film o della fotografia. Da questa operazione di marketing ancor prima che di linguaggio nascono molti dei più comuni luoghi comuni e delle peggiori mistificazioni sull’immagine sintetica.
Alla luce di quanto appena sommariamente esposto questo angolo di fotografia, ragionata, pensata, discussa a volte sofferta, ma sempre mossa da una intensa passione vorrei fosse destinato ad elaborare in modo collettivo una serie di strumenti storico-filosofico-tecnici che ci consentano tutti insieme di crescere nelle nostre capacità analitiche e creative rispetto all’atto della visione.
Per questo vorrei avvalermi di tre strumenti : le nostre già sperimentate “Letture Fotografiche”, ovvero l’incontro con grandi autori della storia della fotografia, e vorrei farlo passando dalle poche e leggere righe degli articoli apparsi fino ad ora, a confezionare per ogni autore un piccolo saggio, con relativo apparato critico, insieme ad un apparato iconografico decisamente più esaustivo.
Un secondo strumento è quello di sviluppare una serie di articoli destinati alla “camera oscura”, sia essa digitale che analogica, dal titolo “Argento Digitale” sottolineando le possibilità creative che nascono mettendo questi due contesti della fotografia in forte relazione tra loro.
Terzo ed ultimo strumento, forse quello più potente, ma certamente anche il più difficile a realizzarsi è quello di impostare qui su questo forum l’ossatura di un apparato critico capace di leggere i mutamenti della cultura dell’immagine fotografica e di quanto gli è correlato nell’era della sua riproducibilità digitale. Per questa terza rubrica il titolo sarà: “Elementi per una sociologia dell’immagine” di cui questa introduzione è un testo pre-costitutivo.