Andreas Gursky

Nel preparare questo articolo su Andreas Gursky mi sono a mia sorpresa ritrovato a scrivere in tre lingue… solo alla fine mi sono ridotto a ritradurre, a ritradire tutto in italiano. Mi è sembrato per lungo tempo di non poter dire nulla di nuovo e davvero intelligente su Gursky senza cadere in quanto già detto o ricalcare stereoptipi forzosi sull’illustrazione come concetto generale fondante questo inizio di un secolo nuovo della storia della fotografia.

L’ispirazione, se di ispirazione si può parlare, piuttosto che di chiave di lettura, è venuta – come sortita fuori d’improvviso – dal Concerto n.3 per pianoforti e orchestra di Johann Sebastian Bach.
Su Andreas Gursky infatti si sono spese moltissime parole, forse troppe, particolarmente dopo che ad un’asta di Sotheby’s “99 Cent II”, ‘a photographic diptych of an American supermarket’ è stata venduta per £1.700.000, pressapoco 2.150.000 euro, infragendo tutti i record.

Andreas Gursky nasce a Leipzig in Germaia nel 1955. Studente con profitto della Folkwangschule a Essen dal 1978 al 1981, si trasferisce per completare i suoi studi al  Staatliche Kunstakademie Dusseldorf, dove si diploma con il maestro Bernd Becher. Fin dall’inizio della sua attività artistica Andreas Gursky si è rivolto a temi della rappresentazione estremamente contemporanei, dividendo i suoi temi in macro categorie, come, lavoro, tempo libero, presentazione e rappresentazione. Gursky alternativamente sofferma il suo sguardo sia sui modelli di produzione dei beni, che su i modelli di consumo, da questa impostazione si ricava anche il perché di certe ricerche ossessive come le foto nelle diverse borse di commercio del pianeta, o di certi spettacoli di massa, di certi modelli di consumo legati alla grande distribuzione etc…

Le sue immagini sono sovente riprese da una prospettiva leggermente elevata. Questo punto di vista privilegiato, assolutamente inusuale per lo spettatore ordinario, è un concetto fondante la fotografia di Gursky. EINSTELLUNG, il termine tedesco per al parola inquadratura significa al contempo anche ‘punto di vista’, in Gursky infatti la metodologia dell’inquadratura è anche un punto di vista sulla realtà.  Alternando riprese dall’alto e dal basso, oppure proponendole entrambe all’interno del medesimo flusso narrativo, riesce a creare l’illusione di una sovra-prospettiva, si artificale ma anche privilegiata, capace di identificare lo spettatore con l’osservatore, conferendo potere al suo sguardo attraverso una accessibilità visiva alla scena che non esiste ne in relatà, ne nella forme già codificate di rappresentazione di quel dato contesto.

Le persone ritratte da Gursky sono sempre fortemente integrate nella scena. Illustrate come miniature, queste sembranon non esistere ne operare come individualità ma concorrono a dare esistenza allo spettatore/osservatore, come in una sorta di grande fratello al contrario, o se vogliamo come Truffaut sceglie di rappresentare la ‘grande famiglia’ in Fahrenheit 451: barboni sotto una sopraelevata, spettatori al Tour de France, abitanti dei “quartieri alti”, operai, bagnanti in spiaggia o membri del Bundestag che siano. Le immagini di Gursky appaiono sempre chiare ed ordinate, ma attraverso la ripetizione e la variazione di elementi individuali, strutture decorative, pattern grafici riesce a conferire una diversa sostanza all’immagine a seconda del punto di vista dello spettatore. Osservate a distanza, le immagini di Gursky, appaiono come strutture grafiche ordinate, quand’ecco che nell’avvicinarsi a queste lo spettatore scopre un insieme sovrabbandante di segni, un affastellamento caotico che concorre alla produzione di un procedimento straniamento unico tra i fotografi suoi contemporanei.

Sin dal 1990 Andreas Gursky ha cercato di integrare le enormi potenzialità dell’elaborazione digitale nella produzione delle sue immagini. Pur lavorando con entrambi i metodi è evidente come si possa parlare di un Gursky analogico-digitale e di un Gursky digitale-analogico. Minimalista e assoluto  il primo, esiziale e sonoro fino al limite del rumore il secondo. I lavori di Andreas Gursky, quindi, non sono da intendersi come delle classiche fotografie di documentazione che provanno a ritrarre l’oggetto come le possibilità espressive del mezzo fotografia permettono, ma sono opere di “fictions”, fictions basate su dei fatti concreti.

Se lo sguardo elevato, rivolto ad una città, accorda un senso capace di conferire fra palazzi e infinito, e noi ciò linguisticamente lo accettiamo. Così ci sembra dubbioso il tentativo di ricreare dei microsmi finiti e iconicamente perfetti, icastici, partendo dall’assemblaggio seriale di elementi presi dal macrocosmo del reale. Ci sembra infatti di transitare compiutamente nell’illustrazione tralasciando il nesso macchinico della fotografia  in toto, quasi volendo dire che il reale non muta e insegue il transreale, ma il contrario, come se il primo non avesse senso se non dato alla luce del secondo.

Il paragonare Gursky a certe atmosfere di alcuni lavori della metà del diciannoveseimo secolo, come quelli del fotografo Gustave Le Gray, che creava i suoi ritratti addizionando in camera oscura diversi negativi mi sembra linguisticamente inappropriato proprio per quanto detto prima. Se nel suo ‘studium’  ‘Brick au clair de lune’ del 1856/57, Le Gray “depicting a sailing ship on the ocean at night, was a combination of separate exposures of the sea and the sky. Although we can interpret the image as a document of an existing set of circumstances, upon closer inspection however, we discern that what we are actually dealing with is a skilfully assembled montage” – come ben scrive Thomas Weski, il curatore dell’ultima mostra di Gursky in ordine di tempo, questo non vuol dire che il sostituire alla somma di visione diacroniche o sincroniche che siano, la fusione delle stesse in un sinolo nuovo ed irreale, scevro dell’identità delle fondatrici sia linguisticamente la medesima cosa, o cosa altrettanto accettabile e neppure pertinente. Ci troviamo di fronte al paradosso che una immagine costruita di eventi concreti sia meno vera o verace di una serie di eventi concreti fusi tra loro e dati in immagine dopo che nulla di questi sia più riconducibile al rispettivo genitore, perché il prodotto immaginato inseguendo la fantasia appare più concreto della realtà. Che sia una strada percorribile è certo, che possa essere percorsa senza inciampi evidentemente no….

Possiamo trovarci di fronte a delle similari contraddizioni anche quando ci troviamo a guardare le immagini fotografiche di  Bernd e di Hilla Becher.

Ma le loro immagini di oggetti industriali, accordate insieme nell’intento di creare tipologie omogenee, trovavano un senso sia nell’unicum concettuale che diviene multiplo materiale e diversificandosi si ripete in una sorta di religiosa fecondazione della materia da parte dell”idea, sia nel costruire strutture di senso in funzione della disposizione delle opere secondo linea ora orizzontali, ora verticali, ora diagonali, in accordo con la loro disposizione spaziale. Le tipologie documentate da  Bernd e Hilla Becher malgrado si riferiscano sovente ad una particolare fase della cultura industriale del loro paese sono anche allegoricamente un racconto sul tema del cambiamento e della perdita. In quest’ottica sono differenti in senso antitetico dall’idea di cambiamento ed onnipresenza dell’ultimo Gursky.

Per quanto Andreas Gursky  abbia voluto accompagnare queste ultime immagini con la poetica tutta fotografica e francese del “decisive moment” così come la definisce Henri Cartier-Bresson, non riesce a giustificare la perdità dell’universalità a favore dell’universalismo che le sue immagini compiono nella ultima sua mostra al 

Perdità che sembra comune ad altri suoi colleghi come se l’impianto germanico delle fotografia fosse incompatibile con il suo degradarsi in mera illustrazione virtuale, e facendosi si perdessero tutti qualcosa, si perdessero tutti la propria identità.

I fotografi che continuano in maniera tradizionale a catturare questo ‘momentum’ attraverso uno ‘studium’ dei materaili dell’immagine, immateriali e materici, mantengono una unitarietà della visione, una unicità della visione che l’uomo sembra etologicamente cogliere ad un grado più basso, ultimo della percezione, conferendogli il giusto posto, ponendo questo compiuto nell’attribuzione del senso del perfetto, oltre il solo valore del riconoscimento formale della costruzione nella composizione del reale e quindi del verosimile che anima gli ultimi lavori di Gursky.

Questo autore è anche spesso associato ad una produzione di immagini a colori di grandi dimensioni. Questa chiave nell’uso del colore nasce grazie al lavoro creativo di fotografi come Joel Meyerowitz, William Christenberry e Stephen Shore che si spinsero a ricercare un uso espressivo dell’immagini a colori, ma fu solo con la personale di  William Eggleston dal titolo Color Photographs tenutasi al New York’s Museum of Modern Art nel 1976 che “il colore”  in fotografia  finalmente ricevette in senso compiuto lo statuto di media artistico. La ragione di questo risiede fondamentalmente nel fatto che il fotografo americano Eggleston grazie all’uso della tecnica del dye-transfer, sviluppo un uso del colore capace di esaltare la profondità emozionale delle sue immagine attraverso una esaltazione dei toni dell’immagine.

Quando agli inizi degli anni  ’80 si profilò la possibilità di produrre facilmente gigantografie a colori – l’artista canadese Jeff Wall aveva già presentato delle grandi  stampe su Duratrans retroilluminate, dimostrando come un tecnica in uso nei fast food per mostrare e vendere panini potesse ben transitare tout court nel mercato dell’arte – gli studenti di Bernd e Hilla Becher all’accademia di Dussendorlf, cominciarono ad esplorare dei formati ben diversi dalle tipologie dei Becher, e anche dalle combinazioni di fotografie individuale, che della poetica dei Becher era un elemento narrativo fondante. Thomas Ruff, Thomas Struth, Axel Hatte e Andreas Gursky tutti scelsero allo stesso tempo di avvalersi di formati di stampa oversize, cominciarono a confrontarsi con delle immagini realizzate per essere montate su pannelli di vaste dimensioni, si confrontarono con le dimensioni della parete espositiva come un artista rinascimentale con la volta di una chiesa da affrescare.

Affiancarono al grande formato anche un modo di presentazione tipico della pubblicità, il DIASEC, ovvero pannelli la cui superficie era fatta di plexiglass incollato sopra la fotografia stessa. La maggioranza dei fotografi ignorava ancora molti di questi aspetti. I fotografi forti del credere nella forza delle loro immagini in quanto tali, si disinteressavo ancora di cose come l’allestimento, limitandosi ad inviare alle esposizioni le loro immagini come un portfolio, e tuttalpiù nel giustapporle in sequenza; risultato la fotografia conservava a distanza di quasi 150 anni dalla sua nascita la medesima forma di rappresentazione, che rimaneva largamente poco attraente per il mercato dell’arte.

Questa innovazione di formato e di presentazione delmedium fotografia concorse in modo sostanziale a dare visibilità ai primi sforzi artistici di questo gruppo assi talentuoso. A questo, specificatmente per Gursky va aggiunto che mentre gli altri fotografi producevano ancora le loro immagini in modo assolutamente tradizionale, in modo diciamo del tutto analogico, questi si rivolse immediatamente alla nascente tecnologia digitale. Gursky distinguendosi ancora di più dal gruppo-massa degli altri fotografi si diresse subito verso un uso radicale del digitale: se il fotografo classico, tecnicamente parlando, rimaneva in buona sostanza ancorato ad una idea classica della post produzione come correzione, raffinamento ulteriore dello scatto, come una sorta di camera oscura allargata e superpotenziata Gursky invece si è rivolto fin da subito verso una post-produzione che fosse più produzione, creazione dell’immagine a partire dal grezzo dello scatto.

Come nel caso di alcune tecniche pittoriche, il digital processing venne interpretato da Gursky come uno strumento per apportare materia al suo costrutto fotografico, superando da subito la forma della singola fotografia per elaborare una progettualità visiva che si costruisce per somma di materia, anzichè come fu per quasi tutti gli altri fotografi.

Andreas Gursky dopo aver applicato questo metodo per i quindici anni trascorsi è arrivato a realizzare una serie di immagini capaci di identificare il suo proprio ideale artistico sviluppando un suo microcosmo attraverso la post produzione della somma delle sue singole immagini.

Come il fotografo tedesco August Sander nel 1920 tento di compilare una sorta di tipologia della Repubblica Weimar con l’aiuto di una serie di ritratti in forma di portfolio, immagine dopo immagine riuscì a costruire un sovrasenso dell’immaginario fuso nell’atto della realtà dell’esistenza umana, una sorta di viaggio attraverso il cuore di una società passante per gli innumerevoli volti dei sui rappresentanti, così Gursky ha elaborato una raffigurazione del suo immaginario attraverso gli elementi fondanti della società imperialista, attraverso le forme esteriori del consumo, della rappresentazione urbana, del mercato, della produzione e del desiderio

La popolarità raggiunta dalle immagini di Andreas Gursky in questi ultimi anni deriva certo dalla capacità espressive di questi grandi ‘affreschi’ contemporanei, creati con l’intento di stordire ed educare attraverso una epifania visiva, ma anche da un sapiente mercanteggiamento di un autore facile e difficile al tempo stesso che ha saputo imporsi attraverso uno stile compatibile nel mercato dell’arte americano. Il formato sempre generose delle stampe, la loro grande capacità di porsi come  oggetti-soggetti fondanti lo spazio che andranno ad abitare, hanno reso le immagini di Gursky le foto più pagate al mondo.

In una intervista realizzata verso la fine degli anni ’70, il fotografo americano Walker Evans poneva la differenziazione tra documenti dati in immagini – come ad esempio la riproduzione di un affresco, di una pergamena o la l’identificazione fotografica che fa la polizia di un arrestato – e le sue immagini che di documentaristico hanno la forma ma non l’intenzionalità. L’immagine del mondo cosi come appare nelle foto di Walker Evans rappresenta un criterio indubbiamente artistico che filtra la forma documento. Le sue fotografie del lento impoverimento degli abitanti rurali negli stati del sud degli Usa, verso la fine degli anni ’30, afflitti dalla depressione economica, sono al contempo icona di un periodo, massima forma di documentazione e esemplare rappresentazione del gusto, del senso, di un’epoca, strumenti capaci di far comprendere epifanicamente un’epoca appunto della storia americana. 


Come Walker Evans prima di lui, Andreas Gursky attraversa il mondo a lui contemporaneo alla ricerca di quei fenomeni visibili capaci di esplicare il passato come dinamica del presente e dell’avvenire, ma rivolgendosi in modo opposto il meccanismo del documento. E’ la forma documento che in Gursky filtra il contenuto artistico. I suoi lavori sulla produzione di beni, e sulla produzione della ricchezza, come sulla sua distribuzione, sugli eventi sportivi come fenomeno di microturismo di massa, o sulla forma della rappresentazione urbana dello spazio abitativo sono le lenti del documento che filtrano il lavoro dell’artista.

Questa impressionante panoplia di forme della produzione umane, di documenti dell’essere umano nel mondo resta comunque scevra di quel terrorismo fattuale, mediatico e incantatorio tanto caro ad altri autori di maniera. Rimane in Gursky quel distacco natural, proprio del documento che conferisce ad ogni visione del presente la netta sensazioni delle relazioni con il suo passato e delle implicazioni con il suo futuro.

In netto contrasto con la fotografia cosiddetta convenzionale, l’autenticità delle ultime illustraioni digitali di Gursky nasce proprio dalla somma della forma documento inequivocabilmente presente nelle sua immagini. La generazione sintetica di un immaginario il cui essere verosmile per somiglianza con l’immaginario collettivo condiviso di questo società. Società fondata sull’uso del visivo come forma di documento-riconoscimento-cultura della condizione condivisa di appartenenza ad un una determinata socialità che rende il verosimile di Gursky vero documento di una società per uguaglianza tra il come ci si pensa, il come ci si rappresenta e di conseguenza quindi il come si è o si dovrebbe essere.

In questa capacità di costruire un visivo documentario del come la società a lui contemporanea si pensa, risiede certamente molta della più recente popolarità di Gursky. La sospensione del giudizio che si percepisce nell’atto documentario fondante il visivo di questo autore, di fatto ha contribuito ulteriormente a rendere la sua arte universalmente accettata.

E’ difficile come ho detto confrontarsi con il Gursky artista fotografico cercando di cogliere gli aspetti non detti di complessificazione del suo percorso narrativo oltre quanto già fatto e anche per questo vorrei concludere con il Gursky uomo, ovvero con la lettera che Gursky scrive al suo mentore Bernd Becher, appena appresa la notizia della sua morte:

   Yesterday I received the very unexpected news of your death. This news is made all the more painful for me as we did not get to see each other in the past year. You do know, however, how enormously important your influence was—and is—not only to me, but also to a whole generation of younger people.

You and Hilla have produced an invaluable and multi-faceted body of work that has served as an invaluable point of reference for us. We adapted and developed many stylistic characteristics of your technique. Yet, in my opinion, there is another crucial factor that ensured the uniqueness of the Becher School: teacher-artists can be found anywhere, but only a few succeed in transmitting your kind of drive to their students.

You were never a power-hungry man, abusing your international fame for political or institutional influence, but, instead, you stoically endured the criticisms of your academic peers. These made you all the more determined to pursue your unconventional teaching methods, which included affording absolute priority to your own and your students’ artistic visions.

When your students came to you with their work, you often reflected upon it late into the night, and took the time to comment, using apt art-historical examples. By the end of these private tutorials, not only were your floors covered with books, but books were also perched on top of the many red-labelled Agfa film cartons, tripods and ladders that were strewn about your studio. A permanent chemical odour signalled the authenticity of your work and living space—where, for the lifeof me, I cannot remember ever seeing a comfy sofa. Having spent my childhood and youth in over-designed advertising studios, it was a key experience to have such an insight into your world. I still remember my tipsy walk home—through that enchanted gateway in front of your studio, past that red van, which was packed with your heavy ladders of all sizes.

Bernd, I thank you for this important time in my life and hope that you will continue quietly to guide me through today’s art circus with your dry humour and carefree attitude.

In friendship,

Andreas

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